L’anno scorso (due anni fa, ndr), di questi tempi, scrivevo una riflessione che aveva come oggetto proprio questo mese, settembre. Mese di cambiamenti e bilanci, progetti ed aspettative. Dicevo che, a me, questo periodo dell’anno ha sempre detto qualcosa.
Sono tornato, per caso, su quelle parole, ad un mese esatto dalla mia partenza.
E, come spesso mi accade quando ritrovo i segni che ho lasciato sul sentiero, ho sorriso.
Se non altro, questo, per me, non sarà un settembre piovoso. È già una prima differenza, un primo segno della distanza, di una realtà altra. Ho sempre pensato che, per cogliere il senso delle cose, sia necessario ed inevitabile essere capaci di guardarsi indietro. Per capire chi sei, devi guardare a chi ti ha preceduto. E così, per capire dove sei, devi guardare dove sei stato.
E allora ho ripercorso i passi che mi hanno condotto fino qua. Se voglio trovare un inizio, un principio, il primo passo, devo risalire a quasi quattro anni fa, durante una conversazione con don Matteo, quando per la prima volta parlai di turismo responsabile. Lui mi disse che gli pareva una cosa buona. Credo che l’idea prese forma durante i mesi irlandesi, quando ho scoperto, per la prima volta, una dimensione altra del viaggio. L’Irlanda è stata molto importante, per tutto. Tornai con l’idea di provare a percorrere questa strada, visto che, allora, non riuscivo neanche a capire da cosa fossi affascinato. Forse dal desiderio di rendere accessibile quello stato di sospensione estatica che avevo provato, la prima volta, sul bus da Dublino a Galway.
Da allora l’ultimo anno di università, gli esami cercati, la tesi. Decisi di prenderla alla larga, di partire, per parlare del viaggio, da Adamo ed Eva. Ancora una volta, sapersi guardare indietro.
Fondamentali, poi, i silenzi. Ho sempre cercato di coltivare il dubbio, di non concedermi a presunte verità urlate. Non ho verità tonanti. Cerco il mio spazio, amo la bellezza, sono convinto che esista la Verità, ma non la possiedo. Nel dubbio, chino il capo, o almeno tento di farlo. E così l’esigenza di trovare luoghi e tempi per mettere in discussione tutto, per rinnovare le domande, per sentirsi fragili e nudi. E da lì ripartire.
L’anno trentino ha dato gambe a quella che rimaneva, fino a quel momento, un’ambizione romantica. Un anno intenso, ricco di soddisfazioni, ma anche difficile, doloroso.
E poi il Brasile, che ha portato con sé un vento di serenità. Non certo una tranquillità imbecille, quella che finge di dimenticare e tiene lontano. Tutt’altro. La serenità di trovarsi al posto giusto, di aver salutato chi ti ha preceduto e di portare con te un’eredità risplendente, di percepire, nella separazione, il gusto e la gioia dell’incontro. E ancora, il potersi confrontare faccia a faccia con qualcosa che, fino ad ora, avevo solo fantasticato.
Negli ultimi tempi, spesso, mi sono sentito chiedere che cosa andassi a fare in Brasile. In realtà, neanche oggi l’ho spiegato. Ma, forse, vi ho detto qualcosa di più importante.
E qui è tutto un lasciarsi permeare, nella consapevolezza che potrò portare a casa solo immagini, frammenti, che per capire la diversità, per viverla, occorre tutta una vita, e forse neanche.
Solo uno spezzato. Acampamento Olga Benario, MST (Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra). Baracche di legno e plastica, a lato della strada federale, a ridosso dei confini della fazenda, della terra per la quale stanno lottando.
Due anni e mezzo di un’esistenza – letteralmente – ai margini.
La strada, una minaccia continua. Già un bambino, l’anno scorso, ha perso la vita. L’acqua, a due chilometri di cammino. La luce, solo quella del sole, che, spesso, brucia.
Due anni e mezzo di attesa paziente, di protesta non violenta, per rivendicare un proprio diritto, il diritto alla terra. Il fazendero, il padrone, probabilmente non ricorda neppure di possederla, in una società dove il latifondismo è ancora la regola, nonostante Lula.
Sabato la comunità farà il passo, varcando i confini della fazenda.
Sabato sarò là, a festeggiare con loro.
Un’altra esperienza che diverrà ricordo.
Ed ecco che, ad un terzo del cammino, mi chiedo dove tutto questo mi porterà.
Naturalmente non ho risposte, e so che, le avessi, sarebbero sbagliate.
Ed è ciò che mi affascina di più.
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